Lunedì 4 febbraio 2008 – da una campagna del Plemmirio al pranzo con un ambasciatore

Lunedì 4 febbraio 2008 

Chi se lo poteva immaginare in fondo?

Io sono cresciuto in un promontorio fatto di campagna e di mare.

Giocavo a calcio con i miei amici in mezzo a uno stradone di asfalto sbiadito posizionando due pietre per lato per delimitare il campo e simularne le porte: a volte dovevamo interrompere le partite perché passava il vaccaro bofonchiante con appresso una mandria di mucche in pascolo o approdava qualche sporadica macchina avventuratasi sin lì; avevamo una capanna sopra un carrubo secolare dove attaccavamo pannelli di legno con dozzine di chiodi, mi divertivo a catturare con le mani i grilletti e tornavo a casa con le mani sporche di terra; non c’era nulla di male nel mangiare in veranda a petto nudo e arrotolare gli spaghetti con forchetta e cucchiaio. Insomma, diciamo che ho vissuto una vita molto semplice, e nonostante i miei genitori siano sempre stati molto attenti a impartirmi un’educazione adeguata, a riprendermi sui miei modi se necessario e a insegnarmi cosa volesse dire avere rispetto per gli altri, non sono stato mai abituato ai fasti né a frequentare un tipo di società più altolocata di quella a cui appartenevo e appartengo. Certo, non mi ero mai posto il problema, non mi ero mai posto il problema di quali forchette si prendessero per prima e a cosa servissero.

Chi me lo doveva dire mentre scorrazzavo spensierato tra le trazzere di un quartiere isolato in un angolo sperduto della Sicilia che un giorno, in un futuro nemmeno troppo lontano, mi sarebbe capitato di essere ospite a pranzo a casa di un ambasciatore italiano?

Mi sono sistemato per bene, ho sistemato la barba per non apparire troppo trasandato e sono andato a prendere un dabab, il furgoncino bianco che ha la funzione dei bus ma molto più piccolo e spartano, e dalla Ring Road ho raggiunto Tahrir Square dove si trova l’ambasciata italiana, circondata da mura, filo spinato e torrette di controllo. Come sempre, ho presentato i documenti alla security presente al gabbiotto, mi hanno fatto passare attraverso un metal detector e sono entrato. L’ambasciatore era ancora indaffarato nel suo ufficio e doveva portare a termine qualche onere diplomatico, così ho colto l’occasione per passare a salutare i dipendenti italiani e intrattenermi a chiacchierare un po’ con loro.

Quando si è presentato giù, sorridente, mi ha detto “che dici? Andiamo a mangiare?” e ci siamo trasferiti nella sua residenza che si trova all’interno delle stesse alte mura, a fianco degli uffici.

Per pranzo, sotto la supervisione della moglie di scuola napoletana, lo chef arabo ci ha preparato un delizioso pranzo a base di pesce, dolce e, per finire, l’immancabile papaya. L’atmosfera è stata molto piacevole, informale, più di quanto potessi immaginare, è sembrato più come un pranzo in famiglia e, a dire il vero, mi hanno trattato come un figlio acquisito. Nonostante il ruolo che ricoprono, loro sono persone semplici, per nulla altolocate, anzi. Tuttavia, a ricordarmi di non trovarmi in un luogo qualsiasi erano quei mobili in legno massello popolati di targhe, riconoscimenti e decine di foto incorniciate per immortalare momenti istituzionali vissuti dall’ambasciatore in compagnia di svariati personaggi politici influenti, tra cui il re di Spagna Juan Carlos e la moglie Sofia di Grecia e il presidente dello Yemen Ali Abd Al Saleh.

Volevo saperne di più, ne ho approfittato per scoprire il suo mondo, chiedergli qualche curiosità. Mi ha raccontato, per esempio, di come sono andate le cose quando due anni prima, nel 2006, con lui già in carica a Sana’a, avvenne il rapimento di cinque italiani in Yemen. Mi ha detto che era in continuo contatto, giorno e notte, con il ministero degli esteri con il governo yemenita e con la stampa di tutto il mondo. Alla fine, per fortuna, le cose andarono a buon fine e a gennaio le tre donne e i due uomini furono rilasciati e Ciampi (nel 2006 presidente della repubblica), Fini (allora ministro degli esteri), Letta e altre figure politiche del periodo lo chiamarono al telefono per complimentarsi per il lavoro svolto.

Eravamo seduti su dei divanetti in una stanza semiovale, il sole entrava da sei finestre sovrastate da mosaici di vetro colorato e io stavo lì, seduto sulla poltrona con una mano sotto il mento e un caffè caldo appena uscito dalla moka con gli occhi attenti, ad ascoltare con interesse le sue storie, felice di avere avuto quell’opportunità.

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Lunedì 4 febbraio 2008 – da una campagna del Plemmirio al pranzo con un ambasciatoreultima modifica: 2021-03-21T15:20:57+01:00da chumbawumba
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