Sabato 2 febbraio 2008 – un boato

Sabato 2 febbraio 2008

Ricomincia la settimana di lavoro. Adoro le mie passeggiate mattiniere al campus per raggiungere la facoltà di Lingue, amo quel lungo corso che lo attraversa come una spina dorsale, quel viale fatto di asfalto grigio, chiazze random di sabbia dorata e sparuti alberi dalle foglie seghettate ai fianchi, quell’aria fresca che investe il mio viso a ogni passo che avanza, il sole che credo debba davvero essersi invaghito della biblica Sana’a per bramare di baciarla così tanto, ogni giorno, amo la voce squillante del muezzin che pulsa nel petto, amo il cielo terso che mi sovrasta, le montagne aride e rossastre delineate all’orizzonte, amo il fascino e l’imperfezione di questo luogo, non riesco neppure a disprezzare il caos di clacson e motori provenienti dalla Shara’a Sittin e dalla Ring Road che si trasformano in ronzii indistinti, non riesce a infastidirmi nemmeno la puzza di smog che fuoriesce dalle migliaia di automobili vecchie e rumorose che ogni giorno gironzolano impunite per la città.

Questa mattina ho fatto lezione con la prima, è la mia classe preferita perché con il passare dei giorni assisto ai loro miglioramenti e penso che, se un giorno saranno in grado di parlare la mia lingua, allora un po’, almeno un po’, sarà stato anche merito mio e per questo ne vado fiero.

Arrivo sempre un po’ in anticipo, a volte trovo qualcuno già lì in piedi ad attendere all’esterno con un bicchiere di shai ahmar o uno shai halib in mano, ossia un tè nero o un tè con il latte, oppure li trovo in aula a chiacchierare. Tuttavia, quando si accorgono che sono lì, che siano impegnati o meno, gli studenti, con le loro camicie bianche dentro pantaloni lunghi e scuri e le giacche che arrivano sopra le ginocchia, rivolgono la loro attenzione su di me, mi salutano con rispetto e mi accolgono con dei sorrisi solari stampati sulle loro labbra scure, sorridono con i loro occhi circondati da ciglia folte che sembrano tratteggiate da una matita, mi salutano pronunciando il mio nome in modo buffo e, al contempo, piacevole, con quella g che diventa una j alla francese, sono premurosi, vengono a chiacchierare con me, mi dedicano il loro tempo perché lo reputano più importante.

Ormai in classe riesco a riconoscere tutte le mie studentesse, mi basta scorgere la forma dei loro occhi così espressivi, tagliati d’oriente, a volte rimarcati dal kajal che è nero e brillante come le loro pupille, perché loro comunicano con gli occhi, gli occhi sono attori sul palco di un teatro dal sipario nero come la pece che in quel punto non cala, e quindi, attraverso quell’unica striscia di corpo che si affaccia sul mondo, condividono i loro sentimenti, i loro sorrisi e la loro tristezza.

Mentre spiegavo, d’un tratto, abbiamo sentito un botto, i vetri hanno tremato. A primo acchito ho temuto che potesse trattarsi di un terremoto.

«Cosa è stato? L’avete sentito?»

Lo avevano sentito tutti, ma non sapevamo cosa fosse stato. Qualche minuto più tardi ha bussato la collega.

«Hai sentito il boato?»

«Sì, che è stato?»

«Dicono che sia esplosa una bomba?»

«Una bomba?»

«Sì… una bomba»

«Ma dove?»

«Qui, all’uscita…»

«Ci sono stati morti?»

«Pare di sì…»

«Cazzo…»

Insomma, sì, è esplosa una bomba a poche decine di metri dall’ingresso del Campus… non si è ancora capito il motivo… voci di corridoio dicono che ci sono stati due morti e parecchi feriti (circa 25, pare)… io so soltanto che è esplosa non troppo lontano dall’internet point che utilizzo quasi ogni pomeriggio per videochiamare i miei…

 

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Sabato 2 febbraio 2008 – un boatoultima modifica: 2021-02-25T21:36:04+01:00da chumbawumba
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