15 Novembre 2007 – Bagliori dietro un velo in un passato mai passato

Giovedì 15 novembre 2017

Udite, udite! Mi hanno consegnato le chiavi dell’alloggio dove dovrò risiedere fino alla fine di questo mandato yemenita. Si trova all’interno del campus, poche centinaia di metri più avanti rispetto alla “guest house” dove ho pernottato, in un’area riservata ai professori fuori-sede che insegnano all’università “Al Jadida” di Sana’a. Sembra quasi un quartiere in miniatura.

Per giungere alla porta d’ingresso, bisogna percorrere un piano di scale esterne. L’appartamento ha 2 stanze da letto, 1 bagno – brutto quanto l’altro e, rigorosamente, senza bidè. Tuttavia, lo spruzzino consolatore c’è anche qui. Subito all’ingresso, sulla destra c’è una cucina mediamente attrezzata, più avanti un salotto con una finestra a vetri e un balconcino. È la mia casetta! Mi sento un privilegiato…wow, una casa così grande tutta per me non l’ho mai avuta!

Dopo aver fatto un “trasloco” delle mie valigie nella nuova “shuqqa” (appartamento), ho optato per fare una passeggiata tra le vie di questo grande campus. È parecchio esteso. Tra un edificio e l’altro ci sono ampi spazi desolati, occupati da terra sabbiosa e polvere che si solleva ad ogni sospiro del vento. In lontananza si ammirano le cime delle montagne, aride e maestose. Da quanto mi è stato riferito, l’università di Sana’a è piuttosto recente, ed è stata finanziata dal Kuwait. Via, via negli anni il numero di iscritti è aumentato tremendamente. La cultura è l’alternativa, una carta da giocare per costruirsi un futuro, un’arma micidiale per sconfiggere molti dei limiti che affliggono questo straordinario paese.

Camminando a zonzo, continuo ad incrociare donne interamente coperte. Per me, che non sono abituato a questa realtà, dalla distanza mi appaiono tutte uguali, delle fotocopie animate. Si muovono come ombre in grado di emanare ombre. Reputo pressoché impossibile il solo pensiero di fermarmi a chiacchierare con una di loro, a chiedere anche soltanto un’informazione. Approssimandomi a loro, tuttavia, da quel tenebroso nero delle abaya spicca una luce, il bianco delle sclere in contrasto con le pupille, somiglia al bagliore delle stelle nella notte. Sono sguardi profondi, tristi, sorridenti, spenti, curiosi, rugosi, accattivanti. Occhi mediorientali, ammalianti, a volte enfatizzati dalla matita, chiamata kohl, e da ciglia lunghe e nere.

Oggi E. mi ha presentato alcuni studenti del quarto anno che parlano un sorprendente italiano. In loro compagnia siamo andati in un ristorante yemenita, sito in periferia, in una zona piuttosto anonima circondata da terra battuta e polvere, sacchetti di plastica colorati “made in China” sospinti dalle folate, qualche gigantesco camion dell’era sovietica parcheggiato e delle capre che pascolano, tra erba e immondizia, in prossimità della strada che la costeggia. Qui non ci sono turisti, si parla quasi esclusivamente l’arabo, ma noi per fortuna abbiamo le nostre guide.

All’interno del ristorante sono previsti dei “privé” riservati alle famiglie. Ognuna ha il suo, così le donne in niqab possono svelarsi senza timore di essere osservate mentre mangiano. Considerando che siamo 3 uomini e una donna occidentale, bionda, senza velo, abbiamo utilizzato una di queste tende. Altrimenti sarebbe stata l’unica donna in tutto il locale e i riflettori sarebbero stati puntati su di lei per tutto il tempo del pranzo. Siamo insomma diventati una famiglia di fatto.

In questo mat’am il piatto tipico è la “saltah“, uno stufato di carne chiamato maraq, affiancato da sahawiq (una miscela di peperoncino, pomodori, aglio, ed erbe in una salsa). Lo stufato, mentre ancora bolle, viene servito su una ciotola rovente di pietra nera. Questa pietanza si accompagna con del fragrante pane yemenita, appena sfornato. Che dire? Questa combinazione è D-E-L-I-Z-I-O-S-A! Pure un tantino piccante! Ovviamente nessuna forchetta. Abbiamo mangiato a due a due sullo stesso piatto, facendo una specie di “scarpetta”. Sì… noi la scarpetta la facciamo alla fine del pasto, qui si fa sin dall’inizio, in pietanze che raggiungono temperature da fusione nucleare. Non a caso, mi sono ustionato i polpastrelli in più occasioni al cospetto dei miei nuovi amici locali che, invece, erano freschi come le rose. Dita d’amianto.

Finalmente ho visitato Bab al-Yemen, “la porta dello Yemen”. Potrebbe essere la città de “Le Mille e una Notte“, un luogo incantato, un’atmosfera speciale. Accedendo, hai come la sensazione che qui il passato non sia mai passato. Il fascino della sua millenaria storia riecheggia tra i profumi e le mura di fango e sabbia, tra il suq e gli splendidi palazzi secolari di quattro, cinque piani che sembrano essere stati creati con del pan di zenzero. A corroborare questa percezione, c’è il popolo di Sana’a, autentico e ancorato in un tempo che, al di fuori di queste mura, non esiste più. La futa, la jambiyya e il qat sono le caratteristiche di un’appartenenza gloriosa, della fierezza yemenita. Spesso, tra l’indice e il pollice, tengono un bicchierino di tè caldo con menta e pinoli o la sua variante con il latte. Così, in mezzo alla strada.

La futa è, come il kilt, una specie di gonnello che gli uomini indossano, una mantella con dei disegni geometrici che si attorciglia intorno al bacino, un po’ come si fa con il telo da bagno dopo una doccia. Una cintura, poi, regge la jambiyya, quel pugnale di cui vi ho parlato in precedenza. Tutti ce l’hanno, dal momento in cui entrano a far parte del mondo degli adulti o dal momento in cui vogliono apparire come tali. È inoltre denominatore di potere tribale. Più potenti sono, più il loro pugnale sarà bello e prezioso.

Quasi tutti indossano una camicia, una giacchetta (simile a quella degli abiti da uomo degli anni ’90) e dei sandali.

Il qat, infine, è un tipo di droga legalizzata. Sono delle foglie che contengono un alcaloide eccitante di cui non conosco gli effetti. La stragrande maggioranza degli yemeniti, durante il giorno, mastica e “immagazzina” per svariate ore il qat su una delle due guance tanto da farla apparire ingrossata. Col tempo la pelle della guancia prediletta si dilata e, talvolta, sembra di stare per scoppiare. In alcuni casi è come stare di fronte a persone con la bocca piena che nascondono una o più polpette su una delle guance!

La sera ho invitato nella mia nuova dimora gli studenti conosciuti oggi. Abbiamo cenato insieme. Questa volta italiano, anche perché devo abituarmi alle spezie e non voglio partire in quarta, il mio stomaco potrebbe rivoltarsi contro di me. Dunque… pasta al pomodoro, standard… e vai con gli scambi gastro-culturali!

A domani!

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15 Novembre 2007 – Bagliori dietro un velo in un passato mai passatoultima modifica: 2019-07-31T20:30:15+02:00da chumbawumba
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